Album di guerra

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I Partigiani del Battaglione "Prealpi" a Gemona
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martedì 4 agosto 2015

Rastrellamenti in Carnia nell'ottobre '44 rievocati in un romanzo

SI PRESENTA A FORNI DI SOPRA UN ROMANZO CHE RACCONTA LA CARNIA DEL 1944  


Venerdì 7 agosto alle ore 18, nella Sala Parco Dolomiti Friulane, il Comune di Forni di Sopra ha invitato la scrittrice Stefania Conte a presentare il suo nuovo romanzo 'L'ultimo canto del codirosso', pubblicato da Morganti editori.
L’autrice, conosciuta come ‘La signora dei gatti’, per via dei romanzi in cui mescola storie feline alle magie di donne straordinarie (La gatta che vedeva le stregheLa gatta che giocava con le farfalleIl gatto che apriva i cassetti e a breve Le gatte che mangiavano le patatine), ha abbandonato temporaneamente il genere per scrivere un romanzo basato su fatti realmente accaduti nella Carnia dell’ottobre 1944.
Questa, in sintesi la trama del bel romanzo: 
Carnia, ottobre 1944.
Nel paese di Pesariis, gli orrori della Seconda guerra mondiale entrano con prepotenza nelle case e negli stàvoli. Gli abitanti, abituati da sempre a fare i conti con i sacrifici e il duro lavoro, rispondono con dignità, fermezza e coraggio alle richieste dei nazisti e dei partigiani.
In una casa posta nel cuore del paese vive l’orologiaio Giovanni Agostinis, con la moglie Maddalena e la loro figlioletta Agnese.
La bambina, per il colore fulvo dei capelli e per la sua voce melodiosa è chiamata da tutti Codirosso.
La sua spiccata sensibilità e la sua intelligenza l’aiutano a dare un senso ai fatti della vita, risignificando ciò che vede con il ricco mondo della sua immaginazione. Nel mortifero presente in cui vive, usa con coraggio le canzoni che ha imparato, modificandone i testi affinché le parole possano custodire le forti emozioni provate.
La sua vita cambierà a causa di un ufficiale delle SS che, senza motivo, riversa il suo odio sul padre.
Dopo una serie di tragici avvenimenti, Agnese viene deportata nel campo di concentramento di Dachau.
Lì, per tentare di sopravvivere, metterà a frutto quanto imparato mentre osservava il padre costruire gli orologi a pendolo: sopraffatta dal terrore, annullerà lo scorrere del tempo vivendo ogni giorno come se fosse privo di passato e di futuro.

Dialogano con la scrittrice la giornalista Gabriella Bucco e lo scrittore Paolo Morganti. Ingresso libero.


Chi è l’autrice
Stefania Conte è nata a Venezia e per amore si è spostata dalla città lagunare per vivere e lavorare in Friuli, portando con sé il marito Paolo Morganti, anche lui scrittore, e i suoi amati gatti. Il felice esordio è avvenuto con il romanzo La gatta che vedeva le streghe (2013), seguito da La gatta che giocava con le farfalle (2014) e da Il gatto che apriva i cassetti (2014). Dopo L’ultimo canto del Codirosso (2015), pubblicherà Le gatte che mangiavano le patatine (2015) e In viaggio con i fantasmi (2015), quest’ultimo scritto a quattro mani con Paolo Morganti.

giovedì 30 luglio 2015

Stazione di Carnia, una targa per ricordare la solidarietà verso i deportati

La comunità di Venzone, in occasione del 70° anniversario della Liberazione, nell'intento di ricordare ed onorare le“Donne coraggiose” che negli anni 1943-44 hanno assolto un compito altamente umano e pericoloso, quello di informare del transito per Carnia i parenti dei deportati provenienti dalla Sicilia al Friuli ed offrire agli stessi, quando possibile, alimenti attinti da poveri deschi e gli “Angeli della Pontebbana”, i ferrovieri che ricorrendo a numerosi stratagemmi, operando in sinergia con il personale viaggiante, diedero la libertà a centinaia di deportati italiani, inglesi e statunitensi, si è ritrovata domenica 26 luglio davanti alla Stazione di Carnia per lo scoprimento di una targa dedicata a quelle lontane vicende .
Il sindaco Fabio Di Bernardo ha sottolineato che "L’Amministrazione Comunale assieme a tutti i Venzonesi vuole rendere omaggio a queste straordinarie persone che molto spesso mettendo a repentaglio la propria vita, mossi dallo spirito di sacrificio, solidarietà e umana dedizione sono riusciti a dare la libertà a numerose vite umane. Questi valori necessariamente vanno trasmessi alle nuove generazioni". 
E' seguito l'intervento del prof. Luciano Simonitto, ove - dopo la ricostruzione del contesto storico- particolare menzione è stata data al sotto-capostazione Angelo Bardelli, sorpreso dai soldati tedeschi mentre informava telegraficamente i suoi colleghi di Tolmezzo e Villa Santina della partenza dei treni blindati diretti verso la Libera Repubblica della Carnia appena costituitasi, una persona che pagò con la deportazione verso il campo di concentramento di Auschwitz (dove i compagni di prigionia, saputo del suo impegno, gli dedicarono una raffigurazione grafica). Da Auschwitz Bardelli  riuscì a fare ritorno dai suoi cari (allo scoprimento della targa erano presenti le figlie).
Presenti alla cerimonia, con i labari, le sezioni ANPI di Gemona-Venzone e della Carnia.



giovedì 14 febbraio 2013

Interessante appuntamento a Venzone:


Una mostra e un viaggio tra ricordi e memorie per conoscere quanto accaduto in
Friuli tra il 1943 e il 1945 e non dimenticare.
Un progetto itinerante che coinvolge i ragazzi dei paesi situati lungo la vecchia
linea ferroviaria che da Udine portava in Germania, paesi che hanno visto passare i
treni carichi di persone in viaggio verso il nulla.

Scuola primaria e scuola secondaria
di primo grado di Venzone
Lo Sbilf - Rete di scuole dell’Alto Friuli
Progetto “Strade di cittadinanza”
Comune Venzone
Pro Loco Pro Venzone



Venerdì 15 febbraio 2013 alle ore 18:00
Auditorium delle scuole di Venzone

Programma:

- Saluto dell’Amministrazione comunale
- Letture e riflessioni degli alunni della classe 3^ della scuola secondaria di primo grado
- Introduzione al filmato a cura del prof. Luciano Simonitto
- Proiezione del filmato, opera di Giacinto Iussa, nel quale sette donne raccontano quanto è avvenuto lungo la vecchia linea ferroviaria cha da Udine portava in Germania e alla stazione di Carnia dove hanno visto passare tradotte di deportati civili e militari
- Raffaella Cargnelutti illustra la mostra “Alla gentilezza di chi la raccoglie” - taccuino di prigionia dello scultore Giulio Cargnelutti (1912-2007) e lettere che riuscì a scambiare con la famiglia nei terribili mesi (luglio 1944 - maggio 1945) trascorsi nel campo di concentramento di Buchenwald
- Video del brano musicale in inglese Train to nowhere - Treno verso il nulla, composto da Mattia Del Moro sulle parole scritte da suo nonno Giulio Cargnelutti alla moglie Eugenia dal campo di concentramento di Buchenwald.

domenica 3 febbraio 2013

Appello per consentire la digitalizzazione dell'Archivio Anpi


Il Blog "Vicende di Guerra, tra Carnia e Gemonese"  si associa a quanti ritengono fondamentale, per la ricostruzione storica delle vicende del territorio, poter giungere alla digitalizzazione ed alla catalogazione informatica dei documenti conservati presso l'archivio dell'Anpi per avere poi la possibilità di accedervi anche via web.

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Archivio Anpi sul web:
mancano fondi

Udine, il progetto costa 55 mila euro, alla Regione ne sono stati chiesti, finora invano, 20 mila. E scoppia la polemica

di Maurizio Cescon
UDINE. Servono 55 mila euro, spalmati in tre anni, per realizzare la digitalizzazione dell’archivio storico dell’Anpi di Udine e metterlo a disposizione sul web, per sempre, dei cittadini, degli studiosi e degli appassionati di storia. Materiale prezioso, migliaia di documenti e fotografie rari che abbracciano un lasso di tempo di 50 anni, dal 1920 al 1970.
Eppure i soldi mancano. Il Comune un piccolo contributo l’ha stanziato, la fondazione Crup, la Lega Coop e la Coop consumatori, così come la Unipol hanno fatto il loro dovere. Mancano la Provincia («ma il presidente Fontanini in persona sta provvedendo», è stato sottolineato) con i suoi 8 mila euro e soprattutto la Regione che dovrebbe stanziare 20 mila euro. «In attesa di questi finanziamenti - spiega il vice presidente dell’Anpi, l’onorevole Elvio Ruffino - i soldi li stiamo mettendo noi, speriamo che la situazione si sblocchi, questi aiuti sono indispensabili».
Se Ruffino mantiene un aplomb invidiabile, ci pensano Mauro Travanut e Anna Maria Menosso, consiglieri regionali del Pd presenti nella sede Anpi per l’illustrazione del progetto, a “pungere” la giunta Tondo.  (...)
Il progetto esecutivo sarà curato da uno specifico gruppo di lavoro organizzato e coordinato da Ugo Falcone e Stefano Perulli dell’Agenzia italiana per il patrimonio culturale (Aipc).
E’ previsto il riordino, l’inventariazione e la valorizzazione, attraverso lo “sbarco” su Internet, delle due grandi parti dell’archivio, quella cartacea e quella fotografica.  (...) E’ stata anche inoltrata una richiesta per ottenere l’Alto patrocinio della presidenza della Repubblica.
«Se tutto l’imponente archivio è arrivato fino a noi - ha detto il vice presidente Anpi Ruffino - lo dobbiamo al puntiglio del presidente Federico Vincenti (a 91 anni presente all’incontro, assieme al segretario Luciano Rapotez, quasi 93 primavere, ndr) che in questi decenni, con metodo e precisione, ha catalogato ogni reperto. E’ materiale raro e straordinario, non dobbiamo perderlo». Nel suo intervento il soprintendente archivistico, dottor Pierpaolo Dorsi ha parlato di «archivio che è uno dei gioielli di Udine» e che «occuparsi di finanziare questo tipo di iniziative ha valore etico».
Il professor Neil Harris, direttore del Dipartimento di storia e tutela dei beni culturali dell’ateneo, ha spiegato che «ci troviamo di fronte a un archivio affascinante. Come università ci teniamo a collaborare per questo tipo di micro interventi qualitativi che possono far crescere il territorio».
Nel suo saluto l’assessore alla cultura del Comune di Udine Luigi Reitani ha dichiarato che «ci troviamo di fronte a una grande impresa. Investire in cultura non è una cosa effimera, ma si agisce sulle strutture della società, sul nostro patrimonio collettivo».
Anche il presidente dell’Istituto friulano per la storia del Movimento di Liberazione, Giovanni Spangaro, carnico e giovanissimo partigiano tra il 1943 e il 1945, ha evidenziato «come tali iniziative contribuiscono ad accrescere il valore e il prestigio della storia locale. Ed è Federico Vincenti che prima di tutti dobbiamo ringraziare, perchè ci ha consentito, in 60 anni di lavoro qua dentro, di fare arrivare fino ai nostri giorni tutta una mole di documenti».
Da: Messaggero Veneto,  3 febbraio 2013
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domenica 27 gennaio 2013

Il partigiano Zane, da Tolmezzo a Dachau


«Io, un sopravvissuto all’inferno di Dachau»

La testimonianza dell’ex partigiano Gio Batta Mecchia. «Vivevamo con la paura addosso, la morte era sempre in agguato»

di Viviana Zamarian 
UDINE. «Zane, Zane anche tu qui. Ah dove sei capitato». Gio Batta Mecchia era appena entrato nella baracca assegnatagli quando udì queste parole. Si voltò e su una sedia, raggomitolato in un mucchio di stracci, scorse un conoscente di Imponzo. Non lo vide mai più. Inghiottito nell'inferno del lager, vittima di quell’orrore chiamato Dachau.
Era stato catturato il 25 ottobre 1944, Zane (questo il suo nome di battaglia), durante un rastrellamento delle truppe cosacche a Verzegnis. Venne portato prima nella caserma di Tolmezzo e poi nelle carceri di via Spalato a Udine. I tedeschi volevano i nomi dei compagni partigiani. Gli mostrarono una lista. Ma non servirono le violenze, non servirono gli interrogatori né le botte. Lui non cedette.
E non parlò. Di lì a pochi giorni venne caricato su un treno merci verso una destinazione ignota. Durante il viaggio, di notte, alcuni tentarono di salvarsi gettandosi dai piccoli finestrini. Ma le tenebre avvolgevano tutto, anche i dirupi e le rocce contro le quali spesso trovavano la morte. Poi, l’arrivo. «Venimmo spogliati di tutto – racconta –. Ci misero dentro delle enormi sale da bagno per toglierci i pidocchi e ci diedero i vestiti civili. Da allora divenni il numero 128131. Pativamo la fame e la sete, ci davano una brodaglia e una fettina di pane ma soprattutto il freddo dell’inverno tedesco. Tanto che per scaldarci ci mettevamo in gruppo uno a fianco all’altro e a turno occupavamo i posti centrali».
Si viveva con la paura, nel campo. Erano stati radunati nel piazzale per assistere all’impiccagione di un polacco che si era ribellato contro un kapò quando Zane vide per la prima volta, tra le baracche, il fumo uscire da un camino. «Non mi resi conto del pericolo che correvo – ricorda –, non si percepiva l’odore e nessuno di noi sapeva a che cosa servisse. Lo scoprimmo dopo».
I primi di gennaio 1945 venne trasferito a Brandeburg, nello stabilimento della Opel «dove dovevamo sgomberare macerie e morti a causa dei bombardamenti degli americani e degli inglesi». Con la primavera arrivarono anche le notizie che le truppe russe erano alle porte di Berlino. Fu allora che decise, insieme ad alcuni compagni, di intraprendere la fuga. Camminarono di notte per sette giorni. Giunsero a Magdeburg e qui, nel tentativo di oltrepassare il fiume Elba, si trovarono in mezzo ai due fuochi: da una parte i tedeschi, dall’altra gli americani. Si nascosero dietro ai blocchi di cemento del ponte bombardato per 48 ore e poi riuscirono a raggiungere la sponda destra.
Si fermarono un mese in un campo gestito dagli americani e una volta riprese le forze, presero ciascuno una strada diversa per tornare a casa. Zane nella sua Tolmezzo dove una trentina di anni dopo fu eletto prima assessore e poi consigliere. Dice che riuscì a salvarsi «grazie alla fortuna». Lo dice ricordando, per esempio «l’arrivo del comandante dei cosacchi su un cavallo bianco che fermò i sottoposti intenzionati a fucilarci». Oggi ha 86 anni, Non è mai più ritornato a visitare il campo di Dachau “da uomo libero”. «No, è una ferita che ancora tornerebbe a sanguinare».

giovedì 24 gennaio 2013

Giorno della memoria .... anche per ricordare l'annessione al Reich del Litorale Adriatico

A ridosso del "Giorno della memoria", una delle iniziative culturali maggiormente significative è data dall'apertura della Mostra "LITORALE ADRIATICO: 
PROGETTO ANNESSIONE" 
Propaganda e cultura 
per il Nuovo Ordine Europeo 1943 – 1945 
a cura di Enzo Collotti e Paolo Ferrari

aperta a Udine, nella GALLERIA FOTOGRAFICA TINA MODOTTI, dal 23 gennaio al 3 marzo 2013

La propaganda nazista investì con tutta la sua violenza la Zona di Operazione Litorale Adriatico, di cui faceva parte il Friuli Venezia Giulia, al fine di convincere la popolazione ad appoggiare la guerra e l’annessione alla Grande Germania. A tale scopo la propaganda sottolineò i legami con il mondo tedesco, svalutando quelli con il resto dell’Italia ed enfatizzando strumentalmente
l’identità e le tradizioni locali.
Questi temi sono affrontati a partire da una straordinaria documentazione fotografica relativa alla mostra “Bolscevismo senza maschera”, allestita nel centro di Udine nell’estate del 1944. Fotografie, libri, pubblicazioni, documenti e manifesti originali contribuiscono a delineare uno sforzo propagandistico sviluppato con determinazione fino alla fine del conflitto.

Aperto venerdì 15.00 – 18.00 / Sabato e domenica 10.30 – 12.30 15.00 – 18.00
Info e prenotazioni: 0432 414719/42 www.udinecultura.it



Chi si occupa della storia della Valle del Lago ricorderà anche che sulla rivista "Adria Illustrierte" era finito anche il paese di Alesso, ritratto in copertina durante l'inizio dell'occupazione cosacca, i primi giorni di ottobre 1944 ....


domenica 28 ottobre 2012

Un carnico sopravvissuto a Buchenwald


«Io, ultimo di Buchenwald»

Olivo Soravito, 89 anni, racconta il suo inferno di dieci mesi nel campo di sterminio. Lavorava in miniera dalle 6 alle 20, al rientro si nutriva con brodaglia e grasso di maiale. Ecco la sua storia 

OVARO. Carne da macello, null’altro. Né nome, né cognome. E neppure nazionalità o sesso. Semplicemente un numero, come il timbro che i vaqueros arroventano sulle mucche. Il suo era il 34751. Era “stampato” sulla fascetta bianca cucita addosso alla casacca a strisce. E c’era anche il triangolo rosso: il simbolo degli infami, i prigionieri politici che i nazisti o destinavano alle camere a gas oppure sfruttavano fino a farli morire di stenti e di fame in uno dei tanti inferni che hanno marchiato con stimmate indelebili la storia dell’umanità. Il suo inferno si chiamava Buchenwald.
C’era arrivato nel luglio del 1944. Pesava 82 chili. Lo aveva ritrovato il 15 aprile del 1945 un soldato italo-americano. Olivo Soravito era disteso, esausto e semincosciente accanto a una delle tante baracche del campo incendiate durante la fuga dei nazisti. Aspettava di morire, anzi, di lasciarsi morire. Attendeva la fine da quando era entrato in quel girone maledetto che avrebbe consegnato ai libri di storia testimonianze da brivido e un elenco di 56 mila morti. Pesava a stento 40 chili. «Coraggio, coraggio», gli aveva detto il soldato strattonandolo per risvegliarlo. «Dai, è finita. Ti aiuto io ad alzarti, vieni. Non avere paura. È finita...». Lui aveva guardato il militare con uno sguardo inebetito. Pensava fosse un sogno.
È il 16 luglio del 1944. Olivo sta rientrando in treno da Udine dove lavora alla costruzione di hangar per una ditta tedesca che collabora con il regime sanguinario di Hitler. Scende a Tolmezzo. Ma non fa in tempo a fare due passi che viene circondato e bloccato da agenti in divisa. Un’ora più tardi è in via Spalato per un interrogatorio-farsa. Lo accusano di essere un partigiano comunista soltanto perché vive a Liariis, frazione di Ovaro, dove i garibadini erano diventati la spina nel fianco degli occupanti. Il giorno dopo viene scaraventato dentro un carro bestiame. Una viaggio di quattro giorni senza cibo e senza acqua. Nel vagone una sorta di recipiente in legno funge da latrina.
L’incubo si materializza quando il treno si ferma proprio dentro il campo di concentramento. Scende. Si guarda in giro. Incrocia sguardi lontani di morti di fame. Un posto spettrale punteggiato da un esercito di zombie. Lo spogliano. Si riveste con un paio di calzoni, la casacca a strisce e un paio di zoccoli di legno. Nemmeno le mutande, gli danno. Olivo Soravito compirà 90 anni il prossimo 12 gennaio. Ha taciuto la sua storia per decenni. Una rimozione necessaria per non farsi devastare dal dolore. Ma quattro anni fa ha ceduto. E ha parlato con il suo compaesano Alberto Soravito. Gli squaderna i diari. Gli racconta. Gli svela i retroscena della mattanza di Buchenwald. Ne nascerà un libro che sarà presentato proprio in occasione del suo compleanno.
Adesso Olivo non ha più paura dei ricordi. Il tempo lo ha paludato con una corazza anti-tutto. «In quei mesi non ho mai pianto. Non ne avevo motivo. Aspettavo soltanto di morire, giorno dopo giorno». Già, giornate da incubo dopo una lunga notte nella baracca che ospitava centinaia di prigionieri stipati in “letti” su tre piani, come bachi da seta. «Qualcuno moriva durante la notte – ricorda – ma quando passavano le guardie riferivamo che stava dormendo così ci assicuravamo anche il suo pasto». Patate crude, grasso di maiale, brodaglie. Eccezionalmente sanguinacci e qualche tozzo di pane raffermo, rimasuglio dalle mense dei militari». Fame, tanta fame, sempre fame. E d’inverno il freddo che schiacciava la testa e non ti faceva respirare neppure di notte.
«A Buchenwald – aggiunge – si moriva di fame, di stenti, di broncopolmonite. Arrivavano le Ss e portavano i cadaveri nei forni crematori. Oppure nella fossa comune che noi aveva scavato, 40 metri per 40, quando i forni s’intasavano dal troppo “lavoro”». Olivo ha pianto soltanto una volta nella sua vita: il 18 gennaio del 1953 quando è nato suo figlio. «Ma è stato un pianto di felicità – precisa – perché quando hai tanto dolore, quando la vita è un incubo tutto si blocca, anche le lacrime. Non pensi a nulla. Non hai speranza. Non hai desideri. Non hai il tempo. Non hai il corpo». Di giorno Olivo lavora nelle miniere di sali minerali. Un turno senza fine dalle 6 del mattino alle 20. «Ma là sotto almeno si stava al calduccio: sempre 22 gradi anche d’inverno. Un altro po’ di brodaglia e via in baracca». Solo. Disteso. Raggricciato.
«Stentavi a prendere sonno, non mi ricordo a cosa pensavo. Sentivo i morsi dei pidocchi. Eppure li avrei voluti accarezzare ogni sera, uno per uno. Tra di noi si diceva che quando un prigioniero non sentiva più il morso dei pidocchi il giorno successivo sarebbe morto perché le bestiole rifiutavano il sangue di chi stava morendo. Sì, mi davano dolore, ma mi facevano sentire ancora vivo».
Domenico Pecile
(Messaggero Veneto 25 ottobre 2012)


sabato 17 marzo 2012

Ricordando i "Perlasca" della ferrovia pontebbana

Il "Messaggero Veneto" del 16 marzo ha ospitato una riflessione del prof. Luciano Simonitto sul ruolo avuto dai ferrovieri a Stazione per la Carnia, nel duro periodo tra il 1943 ed il 1944, quando diversi di loro si attivarono per aiutare quanti viaggiavano forzatamente verso la deportazione. Simonitto ripropone un tema  a lui caro: se la figura di Giorgio Perlasca ha giustamente avuto un eco considerevole, non sarebbe giusto ricordare anche l'impegno civile di quei ferrovieri e di quelle donne che prestarono soccorso ai deportati?

I “Perlasca” della pontebbana erano di estrazione eterogenea

Correva l’anno 1944, Bellina Dionisio, alunno d’ordine (sottocapostazione) della stazione di Venzone annotava nel suo diario: «Nel pomeriggio del 22 luglio 1944, verso le ore 16.30 giungeva a piedi in questa stazione il collega della stazione di Carnia, Bardelli Angelo, accompagnato da un sottufficiale e da sei militari tedeschi. Osservai che il Bardelli era un po’ malconcio. Difatti presentava una ferita al sopracciglio, labbra tumefatte e sanguinanti e la guancia sinistra contusa e gonfia. Cercai di avvicinarlo ma mi fu impedito in malo modo sia dal sottufficiale che dai militari. Seppi poi che la mattina seguente col treno 1635 il suddetto Bardelli era stato tradotto a Udine sempre in stato d’arresto». Angelo Bardelli era stato sorpreso dai soldati tedeschi mentre segnalava telegraficamente al collega di Villa Santina la partenza di un treno blindato. Il comando nazista invero, nell’estate del ’44, aveva deciso di dare segnali forti con azioni spettacolari, deterrenti, per chi segnalava i treni blindati che avrebbero dovuto raggiungere il cuore della Carnia. L’autore del messaggio, come dicevo, venne individuato, tradotto al locale comando tedesco, duramente picchiato. Trascorsa una settimana, anche lui restava assordato dallo scorrere delle ruote sulle rotaie, dal ritmo monotono del treno verso il campo di concentramento di Auschwitz. Questo eroico modo di vivere la resistenza può tornare utile per una lettura corretta del momento storico in tempi in cui si tende a stravolgere e a dimenticare la storia, attraverso un revisionismo assurdo che fa leva su episodi opera “del male” che sempre serpeggia nella società sia in guerra sia in pace. E “il male” serpeggiò effettivamente anche in Friuli. Purtroppo anche ovviamente tra le fila di coloro che erano animati da vero amor di patria, pronti al sacrificio e fiduciosi nel proprio ideale, si erano annidati profittatori e avventurieri spinti più che da motivi politici, da ragioni di appetito, razzia, vendetta, e zotico protagonismo. Alcuni deplorevoli episodi nulla tolgono però agli ideali da cui all’improvviso sbocciare della primavera nacque la resistenza quasi un miracolo da paragonarsi ai miracoli della natura che fanno spuntare i fiori e le gemme in un dato giorno. Scorrendo la cronaca di questi tempi si assiste amaramente a una squallida divisione fra Comuni sul dove tenere la cerimonia del 25 Aprile. L’ex presidente del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, Antonio Martini, li invita a fare un passo indietro, a riflettere, io li invito qualora non trovassero coesione, a salire là dove i ferrovieri, «i Perlasca della pontebbana”, rischiando e perdendo la vita hanno evitato i campi nazisti a centinaia di giovani deportati, là dove quelle ragazze, quelle spose, quelle anziane già provate dal dolore per la perdita o la prigionia dei propri cari nella prima guerra mondiale e in quella in corso, dotate di sensibilità particolare, sentivano quei disgraziati che invocavano aiuto dalle gratelle dei carri del dolore, come figli della loro terra e la loro cultura cristiana trasfusa nel sangue le univa spiritualmente a tale dolore. Sindaci del dissenso, anche l’estrazione politica degli “angeli della ferrovia pontebbana” era eterogenea, molti erano rimasti fedeli al socialismo di cui proprio la Carnia era stata la culla nell’Italia settentrionale, altri come Angelo Bardelli, classe 1911, erano dei “conquistatori dell’Impero” con onorificenze che avevano permesso loro di trovare un posto di lavoro sicuro in tempi di difficile occupazione. Come conciliare dal punto di vista ideologico il paradosso di uomini che hanno salvato la vita di migliaia di deportati, ma avevano militato anche nelle “camicie nere” combattendo nella guerra di Etiopia? Gli atti umanitari da loro compiuti poco contavano con la politica, non avevano assolutamente a che fare con l’ideologia, ma erano dettati dalla loro coscienza che non poteva giustificare ciò che i tedeschi facevano, erano il frutto di sublime abnegazione e coraggio che li conducevano al di sopra delle parti, unicamente e cristianamente tesi a porgere le mani ai fratelli prostrati nel fisico e nella mente.

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