Album di guerra

Album di guerra
I Partigiani del Battaglione "Prealpi" a Gemona

mercoledì 22 giugno 2011

Ampio dibattito sui fatti di Malga Bala del 1944

A Sutrio, sabato 18 alle 17.00, presso la sala conferenze del comune in Via Roma 35, si  è tenuta la presentazione della terza edizione del libro “Malga Bala: 25 marzo 1944 il massacro di 12 carabinieri italiani”, avvenuto in una località che oggi appartiene al Comune di Bovec in Slovenia.
Sono intervenuti  l’autore del libro Toni Russo e il consigliere comunale del Comune di Sutrio Loris Piazza Fabio Cacitti,Presidente leo Club Tolmezzo, che ha organizzato l’evento.
Sui fatti ricostruiti nel libro (la cattura e la successiva brutale esecuzione di un gruppo di carabinieri posti a sorveglianza della centrale di Bretto) segnaliamo la costruttiva discussione in atto sul sito Carnia.La che, partendo dall'analisi del fatto in questione, affronta diverse tematiche sulla correttezza dell'indagine storiografica.
Vedi: 

lunedì 20 giugno 2011

Una testimonianza sulle azioni di solidarietà nel 1943-44 lungo la ferrovia Pontebbana

"Ho ottant’anni, sono nato e sempre vissuto a Udine a Sant’Osvaldo. Ho molto apprezzato gli articoli usciti sul vostro giornale il 2 giugno scorso riguardanti le manifestazioni avvenute il giorno prima alla stazione ferroviaria della nostra città per ricordare il contributo delle donne udinesi nella Resistenza civile contro il nazifascismo. A tale proposito avrei anch’io qualcosa da aggiungere accaduto a me personalmente. Negli anni ’43-’44 la ferrovia Pontebbana era quasi ogni giorno percorsa dai “treni della notte” dei deportati nei lager. I vagoni erano stipati e dalle strette feritoie si vedevano solo visi e mani e si udivano voci invocanti pietà. Scattò la solidarietà della gente per portare un po’ di sollievo a quelle persone sofferenti. Io all’epoca avevo 12 anni, mio fratello Diego quattro di più. Avevamo trovato lavoro come strilloni proprio in stazione sui treni in partenza e in transito. Mio fratello un giorno percepì la voce di un giovane soldato da uno di quei treni incriminati. Colse dalle poche parole sussurrate che il ragazzo voleva dare un ultimo saluto alla mamma che stava in via Aquileia; montò in bici come una folgore, si recò sul posto, e la signora potè dare la benedizione a quel figlio sfortunato che le porse la medaglietta che aveva al collo come ricordo. Quei disperati avevano solo una possibilità di salvezza: saltare dal treno nel momento propizio, quando il mezzo rallentava in salita e in curva verso il Canal del Ferro. Per favorire la fuga si necessitava alzare i saltelli delle serrande del retro. I ferrovieri, mio fratello e io in più di una occasione riuscimmo in questa impresa con il rischio di essere scoperti dalle guardie. Un giorno, purtroppo, anche se sempre avvisavamo di non saltare subito e di aspettare la salita in montagna, un giovane prigioniero si dette alla fuga appena aperto e fu ucciso all’istante da un repubblichino di Salò da una raffica di mitra. Era molto rischioso per tutti, noi eravamo giovani e incoscienti, ma riteniamo di aver dato un contributo a salvare vite di altri ragazzi più sfortunati di noi. Vorrei che servisse di monito per i giovani d’oggi: che la solidarietà, la condivisione e l’amore per il prossimo non dovrebbero mai venir meno. Che nel momento del bisogno si tenda una mano a chi sta soffrendo: aiuta chi è nel disagio, ma fa un gran bene anche a chi offre soccorso. Il gesto d’amore arricchisce chi lo riceve, ma da una gioia immensa a chi lo porge. Nient’altro può essere paragonabile a questa sensazione".
Fausto Campana, Udine
(Lettera al Messaggero Veneto, pubblicata il 19 giugno 2011)

sabato 11 giugno 2011

Donne carniche nella Resistenza: Giulia di Enemonzo

Le donne carniche della Resistenza 


Ci auguriamo che l’encomiabile iniziativa del Comune di Udine per l’intitolazione di un piazzale alle donne Resistenti possa trovare anche in Carnia adeguato riscontro. Pensiamo, in particolare, per l’occasione delle commemorazioni della Repubblica Libera che si terranno il prossimo autunno, quest’anno associate all’Anniversario dell’Unità d’Italia. Ci commuove pensare che fosse un’idea cullata da “Gianna” moglie e compagna di Mario Lizzero, il comandante Andrea. Più volte il Messaggero Veneto ci ha consentito di tratteggiare la figura di alcune di queste combattenti che hanno coniugato il loro essere donne e carniche con l’attaccamento ai valori della Patria e della lotta di liberazione. Paola, Vera, Katia, Nina, Agata, Liduina e tante altre sfidarono le convenzioni di un atavico mondo patriarcale per consegnarci un Paese libero dall’invasore, ma anche profondamente cambiato soprattutto nella considerazione del ruolo e dei diritti dell’universo femminile. 
Ci sia permesso di ricordare brevemente il profilo di un’altra di queste straordinarie protagoniste che offrì il proprio entusiastico contributo alla causa senza mai tirarsi indietro, senza mai cercare riparo o scusante appunto per l’essere donna o per l’essere giovane: Giulia Nassivera di Enemonzo. Aveva solo 21 anni quando morì di tisi all’Ospedale di Udine nel 1946, 21 anni compiuti e bruciati nella buia stanza di un reparto per incurabili. Quando la vita brilla alla luce, Giulia dovette lasciarla. Contrasse probabilmente malattia proprio per non essersi risparmiata impavida nella lotta, svolgendo il difficile incarico di portaordini alle formazioni partigiane, in particolare verso il presidio di Pani. Faceva parte della struttura d’informazioni che lavorava silente nei paesi e che era definita "del terreno". Giulia era maestra elementare, era cresciuta in un ambiente vicino al regime, il padre titolare della locale macelleria, di origine fornese, ragazzo del ’99, indomito Ardito del conflitto mondiale e camicia nera della prima ora, ma ben presto aveva maturato ben altre convizioni. Si era formata alla scuola del professor D’Orlando suo paesano, vecchio e solido antifascista, amico del Mussolini socialista. E’ descritta bravissima nell’impegno e nell’ingegno, bellissima nell’aspetto e nel portamento. Tra le prime a entrare nel movimento Resistenziale a diciotto anni, garibaldina nello spirito e nell’animo, apostola di una nuova era. Nella stanza dell’ospedale dove la tubercolosi la stava consumando e poco prima che cominciasse il suo tempo ultimo, Giulia esclamò, alzandosi a fatica dal letto, davanti alla zia che l’assisteva e alle luci di una Udine che rinasceva: «Ce biel ca le il mond agna par dovei murii e lasalu». Quel mondo nuovo Giulia aveva contribuito a crearlo. Di lei ci restano gli occhi e il sorriso vivissimi in un quadro che la sua mamma conservava come una reliquia in una stanza dei ricordi. Una folla enorme e commossa l’accompagnò al camposanto di Enemonzo per l’ultimo viaggio. Fu Pietro Pascoli, il carismatico “Lenin” di Quinis, a ricordarne sapienza, audacia e valore. In quel camposanto Giulia riposa nella riservata e accudita tomba di famiglia. Su quel freddo marmo non manchi mai un fiore, perchè è il fiore, come canta «O Bella Ciao», di una partigiana senza età, morta per la nostra libertà. 


Pierpaolo e Viedo Lupieri Tolmezzo


(da: Messaggero Veneto, 10 giugno 2011)

mercoledì 8 giugno 2011

Quell'oscuro ruolo dei ferrovieri nei mesi duri dell'occupazione nazista

Sul ruolo,  la figura e la funzione dei ferrovieri nelle stazioni dell'Alto Friuli e della Carnia nei duri mesi dell'occupazione nazista, un contributo notevole viene dalle riflessioni e dalle analisi del prof. Luciano Simonitto di Carnia. Una degli ultimi contributi riguarda la figura del sottocapostazione Bardelli.






dal Messaggero Veneto del 14 aprile 2011 

Tolmezzo Carnia/ Un sottocapostazione che è un simbolo 

L'organico dei ferrovieri di Stazione Carnia che negli anni '43-44-45, con slancio altruistico, hanno saputo dimostrare la propria umanità, al di là delle bandiere ideologiche, evitando a centinaia di italiani e no i campi di concentramento nazisti, era formato da 32 unità di cui 2 donne. Scorro il registro delle off. graf. Chiappino - Livorno relativo agli anni suddetti, è un susseguirsi delle sigle P. M. N., pomeriggio, mattina, notte, ritmi di lavoro piuttosto pesanti, rarissime le R. dei turni di riposo. Ma ciò che colpisce per l'eccezionalità sono le lettere A. G. (assente giustificato) e S. (sospeso) relative all'alunno d'ordine (sottocapostazione) Angelo Bardelli poste dal giorno 22.07.'44 e dal 01.12.'44. Cosa accadde? Ce lo dice il signor Giovanni Venier presidente di turno del comitato di liberazione nazionale di Villa Santina in un documento del 10.04.'46. "Questo Cnl di Villa Santina attesta che il sig. Angelo Bardelli di Agostino, sottocapostazione nel periodo di occupazione della Carnia da parte dei tedeschi, trovandosi in servizio alla Stazione di Carnia, con un pretesto o con l'altro informò sempre le stazioni di Tolmezzo e Villa Santina o le formazioni partigiane dei movimenti dei treni blindati e delle formazione Ss tedesche, in modo che i partigiani potessero prendere tempestivi provvedimenti e la popolazione maschile potesse riparare in montagna. Solo il Bardelli ebbe il coraggio di fare questo e lo continuò a fare imperterrito malgrado gli avvertimenti e le minacce tedesche, fintanto che il 22 luglio '44, sorpreso di nottetempo in corrispondenza telegrafica con la stazione di Villa Santina, fu bastonato e arrestato e quindi deportato al campo di concentramento di Auschwitz (Alta Slesia) dove rimase dal 02 agosto '44 al 06 maggio '45. In fede». Torna inevitabile chiederci quali sentimenti abbiano portato a tale abnegazione un uomo che pochi anni prima aveva riportato onorificenze militari nella guerra coloniale d'Africa, un uomo che in tempi di difficile occupazione aveva un lavoro sicuro, una famiglia che l'adorava ed era conscio dei rischi cui incorreva. Credo che le componenti siano state molteplici "in primis" la cultura cristiana che non lo lasciava indifferente alla vista quotidiana dei treni "della notte" e del dolore, ai vagoni che portavano stampata la dicitura "cavalli 8 - uomini 40" stracolmi di operai, militari, intellettuali che non avevano aderito alla Rsi stipati come bestie, assordati dal ritmo monotono del treno, molestati dal caldo, dalla sete, prostrati nel fisico e nella mente. Ad Angelo il destino ha riservato il ritorno da quella bolgia infernale, è stato uno dei 17 fortunati che ha potuto rivedere il suo paese. Si è portato a casa un quadro in stile naif imposto non dallo stilema quanto dai pochi mezzi in dotazione ai sui compagni di lager che gli avevano confezionato raffigurandolo con la classica paletta mentre dava il via al treno da favola della Società Veneta Carnia - Villasantina con la didascalia "per la Carnia si cambia". Ai carnici che ancora si riscaldano e si alimentano al fuoco sacro della politica "bella", del fiero passato e sono alla ricerca di un simbolo che rappresenti il territorio in chiave storico-sociale e non echeggi il servilismo o la sudditanza della gerla, ai carnici dico che questo motivo potrebbe essere preso nella dovuta considerazione perché la "rustica virtù" esige un cambiamento.
Luciano Simonitto, La Carnia - Venzone 

lunedì 6 giugno 2011

Quei silenziosi gesti di solidarietà verso le vittime dei "treni della notte"

Uno dei capitoli sinora meno esplorati della Resistenza friulana è quello delle ore buie seguite all'8 settembre, con la deportazione di migliaia di militari e civili cui, nelle stazioni friulane, in tanti cercarono di prestare soccorso e aiuto.
Di quei fatti molto ha scritto il prof. Simonitto di Venzone, testimone diretto delle vicende del casello di Carnia; se ne è parlato anche in un recente incontro a Gemona, quando sono stati citati episodi di solidarietà accaduti proprio in quella stazione. Sono state effettuate anche diverse videointerviste, nella zona Venzone - Carnia - Pontebba che speriamo possano in breve confluire in un video distribuito pubblicamente.

Frattanto nella stazione di Udine è stata inaugurata una targa a ricordo di quelle persone (in massima parte donne) che prestarono il loro aiuto ai deportati.


Mercoledì 1° giugno nel piazzale della Stazione

Scoperta la targa a ricordo 
delle donne friulane della resistenza civile

L’iscrizione ricorda le donne che durante l’occupazione nazista, mettendo in pericolo 
la propria vita, raccoglievano dai convogli in transito i biglietti di saluto dei prigionieri deportati
L’iniziativa ha celebrato le donne friulane che durante l’occupazione nazista, sfidando il pericolo, raccoglievano i biglietti di saluto lasciati cadere dai convogli ferroviari carichi di prigionieri diretti verso i campi di concentramento e di sterminio. Queste “eroine” silenziose, che si recavano lungo la linea ferroviaria anche per portare generi di conforto, consegnavano i messaggi agli impiegati delle poste, che provvedevano a spedirli ai familiari dei deportati. “Accanto a quella partigiana – ha sottolineato il sindaco di Udine Furio Honsell – c’era anche la resistenza civile di tante persone, soprattutto donne, che hanno saputo essere protagoniste con piccoli gesti di straordinaria umanità e coraggio”.
Nel corso della cerimonia insieme al primo cittadino ha preso la parola la presidente del comitato scientifico “Donne resistenti”, Paola Schiratti, che ha voluto ribadire l’impegno nel proseguire le ricerche documentali relative alle donne friulane della resistenza. L’iniziativa, curata dal comitato “Donne resistenti” e dal Comune di Udine, ha trovato la piena condivisione di diversi enti: Anpi, Aned, Core, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, Donne in Nero, Cif, Donne e impresa, gruppi della Provincia di Udine di Idv, Sinistra Arcobaleno e Pd, commissione Pari Opportunità del Comune e della Provincia di Udine.
Sulla cerimonia di Udine vedi anche:
www.youtube.com/watch?v=QdqyFEFWGhM 

martedì 31 maggio 2011

Pàlcoda, luogo della memoria della Resistenza friulana

Fra i tanti "Luoghi della memoria" della Resistenza friulana, singolare il borgo sperduto di Pàlcoda, sulle montagne sopra Tramonti di Sotto, base partigiana nell'estate 1944 e oggetto dei rastrellamenti nazifascisti dell'autunno (vi trovarono la morte il comandante Battisti, assieme a Sergio, Jole e Jena).



Inaugurazione a distanza per la chiesa di Pàlcoda


Pàlcoda si raggiunge soltanto a piedi. Due ore di cammino dal parcheggio di Tramonti di Sotto e tre quarti d'ora dal borgo di Tàmar. Costruita alla fine del 1600 dai montanari per affrancarsi da imposte e servitù, Pàlcoda, diventata simbolo di libertà, all'inizio del Novecento conta 150 residenti. La famiglia Masutti abbandona Pàlcoda, per ultima, nel 1923. Nell'autunno 1944 Pàlcoda e il vicino borgo di Tàmar sono rifugio di partigiani. Il 5 e 6 dicembre 1944, nazifascisti e decima Mas attaccano Tàmar e Pàlcoda. Cadono i comandanti partigiani Eugenio Candon "Sergio", Giannino Bosi "Battisti", Jole De Cilia "Paola", Edo Del Colle "Jena". 


Sul campanile di Pàlcoda una targa dell'Anpi di Forgaria ricorda fatti e caduti. 


Nel dopoguerra Pàlcoda va in rovina. Ma la comunità tramontina non vuole perdere quelle sue radici. Dal 2003, per merito di volontari, amministrazione comunale e parroco don Fabrizio De Toni, si recupera, con campanile e chiesa, la propria storia. Sabato era prevista l'inaugurazione della chiesa. Il campanile era stato ultimato nel 2007. Le avversità atmosferiche non hanno permesso di recarsi a Pàlcoda. La festa, con monsignor Ovidio Poletto, che da vescovo aveva già inaugurato il campanile, si è ugualmente svolta a Tramonti di Sotto e sarà ripetuta a Pàlcoda il 23 luglio. Chiesa gremita a Tramonti per la messa officiata dal vescovo emerito e dai parroci: don Omar Bianco di Tramonti e Val Meduna, don Roberto Tondato, don Arturo Rizza di Orcenico e don Ruggero Mazzega di Roveredo. Inni del coro del Cai di Spilimbergo. Toccante omelia di monsignor Poletto che, citando alcune strofe di "Radici" del cantautore Francesco Guccini, ha elogiato, con il recupero di Pàlcoda, quello delle proprie radici. La festa ha poi vissuto il momento conviviale. Pergamena ricordo consegnata a monsignor Poletto e attestato per Antonio Masutti che ha costruito e donato le porte in ferro della chiesa. Ben 150 riconoscimenti a singoli e associazioni, offerti dalla parrocchia. Una conchiglia con la quale si dissetavano i pellegrini diretti a Santiago di Compostela. Sul retro il motto "... In cammino", al centro la medaglia della chiesa di Pàlcoda disegnata da Caterina Costa. Foto di gruppo con il sindaco Giampaolo Bidoli, monsignor Poletto, i parroci attuale e precedente, Patrizia Bertoncello, presidente della Pro loco, Renato Miniutti del Gruppo Pàlcoda, Francesco Facchin della Consolrestauri e l'architetto Massimo De Paoli, direttori del restauro, Antonio Zambon, presidente Cai regionale. Con loro parrocchiani, cacciatori, componenti della Protezione civile, alpini, guardie forestali. Al rinfresco è seguito lo spettacolo su Pàlcoda "Se viene neve". Sigfrido Cescut 


Sul borgo di Pàlcoda, vedi: http://lastoriafantasma.blogspot.com/2010/11/palcoda-nascosta-tra-le-montagne.html


Sulla figura di Battisti, vedi: http://www.anpiginolombardiversilia.it/news/news_dic_09.htm#20
o anche, sulla figura di  Paola:
http://www.anpigiovaniudine.org/files/File/Jole%20De%20Cillia.htm

sabato 28 maggio 2011

Dal romanzo storico di Folco Quilici, una rilettura delle vicende cosacche in Friuli

L'esperienza dell'insediamento dei cosacchi in Friuli durante la seconda guerra mondiale viene ora esaminata , oltre che dagli storici, anche attraverso altri strumenti letterari (l'autobiografia, il racconto, il romanzo storico...). In questo filone è appena uscito un romanzo storico di Folco Quilici a proposito del quale pubblichiamo la recensione uscita su "Il Giornale". 


Quando il Friuli occupato si chiamava "Kosakenland"



(Da "Il Giornale" , 25 maggio 2011)

L’ultimo libro di Folco Quilici, a sfondo largamente autobiografico, è ambientato in una valle prealpina dominata da un imponente maniero «La dogana del vento». Nome che diventa titolo del volume edito da Mondadori (194 pagine, euro 18,50). Quilici non ha bisogno di presentazioni. Come scrittore e come cineasta ha saputo esplorare tempi e luoghi lontani, e intrecciare il piacere della scoperta al gusto della rievocazione appassionata. Tecnicamente La dogana del vento è un romanzo. Potremmo definirlo «romanzo storico», un filone che nella letteratura italiana e mondiale occupa un posto di straordinaria importanza.
Siamo nel 1945. Il protagonista, Guido, un quindicenne sfollato in campagna con i familiari, vive a Villa Alta. Lì si presenta, mentre l’immane conflitto mondiale volge alla fine e la tigre tedesca è ormai rantolante, un soldato, poco più d’un ragazzo anche lui. Si chiama Pjotr e appartiene a uno dei reparti cosacchi - fieramente anticomunisti per consolidata tradizione - che la Germania ha mandato a presidiare terre italiane e a combattere i partigiani. Furono anche spietati, i cosacchi. Ma Pjotr è gentile, ingenuo, pieno di speranze. Guido ne perderà poi le tracce, immaginandolo travolto e annientato dalla drammatica e atroce sorte di quanti, nemici di Stalin, tornarono nelle sue mani.
Trent’anni dopo l’ex-ragazzo che fu amico d Pjotr riconoscerà un figlio di lui in un giovane e promettente calciatore del Como: figlio d’una maestra, Erminia, che ebbe una brevissima e intensa fiammata d’amore con il ragazzo cosacco. Non stuprata, come tante, ma innamorata. Guido conosce Erminia.
Questo e l’intreccio di La dogana del vento, una «armata s’agapò» alla cosacca, una delle tante vicende dì una stagione terribile e affascinante, d’amore e di morte. Con delicatezza ed efficacia Quilici intreccia la vicenda di Guido, di Pjotr, di Erminia alla ricostruzione di eventi immani e sanguinari. Spinto dalla voglia di sapere tutto, Guido raggiunge la cittadina austriaca di Lienz dove centinaia di cosacchi furono messi a morte, dove in un solo giorni circa duemila di loro tra cui donne e bambini si uccisero gettandosi nella Drava per non essere consegnati all’Urss, dove rimaneva il ricordo delle promesse che esplicitamente o a mezza voce erano state fatte. Gli atamani, capi dei cosacchi, vantavano entrature alla Corte reale britannica, erano convinti d’ottenere un «onorevole perdono», di poter magari emigrare in Australia.
«Si era lasciato credere alle truppe cosacche - annota Quilici - che gli alleati potessero considerare se non legittima almeno comprensibile la decisione del governo cosacco (in esilio a Parigi e a Praga dal 1919) di combattere contro l’esercito russo. Per cui la loro non sarebbe stata una diserzione in massa dall’armata sovietica ma la continuazione della lotta agli aggressori di un tempo».
L’infondatezza di quelle illusioni è evidente. Gli angloamericani non avevano nessuna voglia di negare a Stalin la consegna dei ventimila che dell’armata cosacca facevano parte e che erano stati autorizzati a creare in Carnia una sorta di staterello, la «Kosakenland».
Il 10 dicembre 1943 il governo del Reich germanico aveva indirizzato ai cosacchi un proclama nel quale garantiva che «se la situazione del momento bellico non vi permetterà di tornare nella terra degli antenati vostri, allora vi aiuteremo a creare la vostra vita da cosacchi in Occidente sotto la protezione del Fuehrer, fornendovi terre e tutto quanto necessario per la vostra assistenza». Insomma la Carnia doveva diventare la nuova patria dei cosacchi. Altro che terre e assistenza, i cosacchi, come l’armata Vlasov, erano attesi da fucilazioni di massa o, nel migliore dei casi, da anni di gulag.
In pagine commoventi una testimone racconta a Quilici, nel suo italiano approssimativo, i suicidi di Lienz; «Molti cosacchi gridano non ancora schiavi di russi. No uccisi dai russi. Le donne fuggono con bambini. Gli inglesi le prendono e le legano, loro molto furiose. Abbracciavano il figlio, saltano con lui dentro acque». Erano stati anche feroci i cosacchi, e trovarono nei sovietici analoga o maggiore ferocia: più comprensibile, secondo me, del gelido cinismo americano e inglese.


Il romanzo storico di Folco Quilici racconta le drammatiche vicende dell’armata che, in fuga dalla Russia, invase l’Italia in nome di Hitler

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