Una testimonianza sull’estate partigiana gemonese
Poco nota è forse la testimonianza di Italo Zaina che, nell’estate del 1944, era partigiano col Btg Prealpi sulle montagne gemonesi. Il suo racconto di quei fatti consente di chiarire alcuni dettagli su episodi citati in diversi libri (come le memorie di “Rosa” e di “Nino” e la ricerca di G.F. Gubiani). Molto dettagliato, in particolare, è il racconto delle circostanze in cui morì il partigiano “Tito”. Zaina racconta: L'8 settembre 1944, quasi tutto il Btg.Prealpi, al comando di Bruno, aggira il Chiampon attraverso un sentiero stretto, di cui un tratto lungo uno strapiombo sopra Gemona, alle cinque del mattino per tendere un'imboscata alla compagnia repubblichina, che sappiamo in ricognizione alla "Sella del Cristo" tra il Quarnan e il Chiampon. In fila indiana stiamo scendendo verso la Sella con in testa un ragazzone di Vedronza alto quasi due metri (Era un garibaldino, che di ritorno da una licenza rientrava al suo battaglione, comandato da Furore sulla Destra Tagliamento, e avendo pernottato al Prealpi, aveva voluto partecipare all'azione). Io lo seguivo da vicino con in spalla il castello della mitragliatrice e ricoperto dal mio telo tenda (piovigginava e procedevamo avvolti da banchi di nebbia). Improvvisamente risuonò una scarica di mitra. Il ragazzo di Vedronza, colpito in fronte, cade davanti a me; mi getto subito a terra sparando a casaccio col mitra; sparano anche tutti i miei compagni. Quando li raggiungo, strisciando, mi accorgo che il mio telo è foracchiato: due proiettili mi hanno strisciato un polpaccio e l'avambraccio destro. I miei sono convinti che sono stato ferito, perché vedono sangue uscire dalla mia bocca; li rassicuro spiegando che, gettandomi a terra ho battuto col mento, rimasto pure escoriato sopra una pietra, ma per il resto sono indenne. I repubblichini si sono ritirati, sempre sparando contro di noi che restiamo illesi. Ritorniamo verso il caduto e lo troviamo privo del mitra, degli scarponi e la testa crivellata; gli sfilo il fazzoletto rosso (lo conservo ancora) e avvolgiamo la salma nel mio telo-tenda. Ritornati alla nostra baita avvertiamo la base di Gemona. Verranno le ragazze della filanda a recuperare il corpo e quando queste giungono in città, vengono fermate dai fascisti che gettano il caduto in un letamaio: verrà recuperato dopo la liberazione ed onorato con un solenne funerale. L'indomani Bruno, per dimostrare che gli uomini del Prealpi non erano stati intimiditi, ordina un'azione sulla Pontebbana. In quattro uomini, io, Ernesto, Tarcisio di Gemona e Avon di Venzone, esperto della zona, con una mitragliatrice, tre canne di ricambio, trenta bombe "sipe" e scorte viveri per un giorno (polenta, acqua e formaggio) partiamo da Ledis alle 16 del 9 settembre. A mezzanotte in punto passiamo la vetta del Plauris e dopo una rapida salita in rettilineo ci riposiamo al riparo del vento gelido per una mezz'ora. Riprendiamo il cammino in discesa e, verso le cinque, sostiamo presso una baita dove troviamo ricotta salata che accresce la nostra sete. Alle 15 del 10 settembre giungiamo sulla Pontebbana quasi di fronte a Moggio, in località Rio Barbaro. La roccia scende perpendicolare sulla ferrovia, dove bivaccano un gruppo di tedeschi a torso nudo che vediamo portare i loro cavalli ad abbeverarsi nel torrente Fella che scorre a fianco della strada. Rifocillati e riposati mettiamo in opera il nostro piano d'azione: sopra due grossi tronchi che troviamo nel bosco fitto, innalziamo una muraglia di grosse pietre sull'orlo del precipizio, lunga due metri e alta uno e attendiamo finché col binocolo vediamo giungere da Chiusaforte treno militare tedesco; quando questo, giunge a pochi metri, scaraventiamo sui binari la muraglia di pietre insieme a grappoli di bombe "sipe" e con la Breda cerchiamo di colpire il carro officina posto tra la strada e la ferrovia. Immediatamente entrano in funzione, dal basso, i mortai che colpiscono la zona in cui ci troviamo. Ci ritiriamo tra gli scoppi delle granate che ci inseguono per ore. A mezzanotte siamo di nuovo sulla vetta del P1auris. Qui, sfiniti, ci lasciamo scivolare sul pendio ripido per alcune centinaia di metri, dopo che ci concediamo una breve sosta. Avon decide di lasciarci per andare a salutare la famiglia a Venzone e noi tre proseguiamo, giungendo in Ledis nel pomeriggio e prima del riposo stendo una breve relazione per Bruno. Prometto qui che io ed Ernesto ci eravamo assuefatti alle marce in Ledis: per rifornirci di farina di frumento e granoturco, gli uomini del Btg. con l'ausilio di un mulo ed una marcia di quattro o cinque ore, raggiungevamo i Musi, dove si trovavano nel bunker le nostre scorte viveri e ritornavamo con un carico di 40 Kg ciascuno, dopo che avevamo diritto ad un giorno di riposo. Nei giorni normali, il compito più duro era il servizio di sentinella notturno, poiché tutta la zona era sorvegliata da gruppi che si davano il cambio ogni tre ore e il punto più lontano era quello disposto verso i Rivoli Bianchi, tra Gemona e Venzone, dove di giorno disturbavamo con la mitragliatrice i lavori di ripristino della ferrovia, bombardata ogni giorno dagli aerei alleati. Mettevamo fuori uso il compressore e prima dell'azione avvertivamo gli operai affinché si mettessero in salvo dopo la prima bordata innocua. Nelle ore di ozio si istruivano i giovani all'uso delle armi e degli esplosivi. In Ledis strinsi una fraterna amicizia col gemonese Celetto: era laureato in filosofia e morirà, stroncate entrambe le gambe da una bomba, nel grande rastrellamento di fine settembre. (…) (dal sito www.bassafriulana.org ) Pubblicato il • 22/10/2008sul Blog "Guerra nel Gemonese" |
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