«Io, ultimo di Buchenwald»
Olivo Soravito, 89 anni, racconta il suo inferno di dieci mesi nel campo di sterminio. Lavorava in miniera dalle 6 alle 20, al rientro si nutriva con brodaglia e grasso di maiale. Ecco la sua storia
OVARO. Carne da macello, null’altro. Né nome, né cognome. E neppure nazionalità o sesso. Semplicemente un numero, come il timbro che i vaqueros arroventano sulle mucche. Il suo era il 34751. Era “stampato” sulla fascetta bianca cucita addosso alla casacca a strisce. E c’era anche il triangolo rosso: il simbolo degli infami, i prigionieri politici che i nazisti o destinavano alle camere a gas oppure sfruttavano fino a farli morire di stenti e di fame in uno dei tanti inferni che hanno marchiato con stimmate indelebili la storia dell’umanità. Il suo inferno si chiamava Buchenwald.
C’era arrivato nel luglio del 1944. Pesava 82 chili. Lo aveva ritrovato il 15 aprile del 1945 un soldato italo-americano. Olivo Soravito era disteso, esausto e semincosciente accanto a una delle tante baracche del campo incendiate durante la fuga dei nazisti. Aspettava di morire, anzi, di lasciarsi morire. Attendeva la fine da quando era entrato in quel girone maledetto che avrebbe consegnato ai libri di storia testimonianze da brivido e un elenco di 56 mila morti. Pesava a stento 40 chili. «Coraggio, coraggio», gli aveva detto il soldato strattonandolo per risvegliarlo. «Dai, è finita. Ti aiuto io ad alzarti, vieni. Non avere paura. È finita...». Lui aveva guardato il militare con uno sguardo inebetito. Pensava fosse un sogno.
È il 16 luglio del 1944. Olivo sta rientrando in treno da Udine dove lavora alla costruzione di hangar per una ditta tedesca che collabora con il regime sanguinario di Hitler. Scende a Tolmezzo. Ma non fa in tempo a fare due passi che viene circondato e bloccato da agenti in divisa. Un’ora più tardi è in via Spalato per un interrogatorio-farsa. Lo accusano di essere un partigiano comunista soltanto perché vive a Liariis, frazione di Ovaro, dove i garibadini erano diventati la spina nel fianco degli occupanti. Il giorno dopo viene scaraventato dentro un carro bestiame. Una viaggio di quattro giorni senza cibo e senza acqua. Nel vagone una sorta di recipiente in legno funge da latrina.
L’incubo si materializza quando il treno si ferma proprio dentro il campo di concentramento. Scende. Si guarda in giro. Incrocia sguardi lontani di morti di fame. Un posto spettrale punteggiato da un esercito di zombie. Lo spogliano. Si riveste con un paio di calzoni, la casacca a strisce e un paio di zoccoli di legno. Nemmeno le mutande, gli danno. Olivo Soravito compirà 90 anni il prossimo 12 gennaio. Ha taciuto la sua storia per decenni. Una rimozione necessaria per non farsi devastare dal dolore. Ma quattro anni fa ha ceduto. E ha parlato con il suo compaesano Alberto Soravito. Gli squaderna i diari. Gli racconta. Gli svela i retroscena della mattanza di Buchenwald. Ne nascerà un libro che sarà presentato proprio in occasione del suo compleanno.
Adesso Olivo non ha più paura dei ricordi. Il tempo lo ha paludato con una corazza anti-tutto. «In quei mesi non ho mai pianto. Non ne avevo motivo. Aspettavo soltanto di morire, giorno dopo giorno». Già, giornate da incubo dopo una lunga notte nella baracca che ospitava centinaia di prigionieri stipati in “letti” su tre piani, come bachi da seta. «Qualcuno moriva durante la notte – ricorda – ma quando passavano le guardie riferivamo che stava dormendo così ci assicuravamo anche il suo pasto». Patate crude, grasso di maiale, brodaglie. Eccezionalmente sanguinacci e qualche tozzo di pane raffermo, rimasuglio dalle mense dei militari». Fame, tanta fame, sempre fame. E d’inverno il freddo che schiacciava la testa e non ti faceva respirare neppure di notte.
«A Buchenwald – aggiunge – si moriva di fame, di stenti, di broncopolmonite. Arrivavano le Ss e portavano i cadaveri nei forni crematori. Oppure nella fossa comune che noi aveva scavato, 40 metri per 40, quando i forni s’intasavano dal troppo “lavoro”». Olivo ha pianto soltanto una volta nella sua vita: il 18 gennaio del 1953 quando è nato suo figlio. «Ma è stato un pianto di felicità – precisa – perché quando hai tanto dolore, quando la vita è un incubo tutto si blocca, anche le lacrime. Non pensi a nulla. Non hai speranza. Non hai desideri. Non hai il tempo. Non hai il corpo». Di giorno Olivo lavora nelle miniere di sali minerali. Un turno senza fine dalle 6 del mattino alle 20. «Ma là sotto almeno si stava al calduccio: sempre 22 gradi anche d’inverno. Un altro po’ di brodaglia e via in baracca». Solo. Disteso. Raggricciato.
«Stentavi a prendere sonno, non mi ricordo a cosa pensavo. Sentivo i morsi dei pidocchi. Eppure li avrei voluti accarezzare ogni sera, uno per uno. Tra di noi si diceva che quando un prigioniero non sentiva più il morso dei pidocchi il giorno successivo sarebbe morto perché le bestiole rifiutavano il sangue di chi stava morendo. Sì, mi davano dolore, ma mi facevano sentire ancora vivo».
Domenico Pecile
(Messaggero Veneto 25 ottobre 2012)