Alcuni stralci di una sua intervista rilasciata nel 2002 a Pieri Stefanutti e Lorenzo Londero:

Erano molto più attrezzati di noi, avevano camion e cingolati… durante la ritirata in tanti cercavano di salirci su, ma venivano ricacciati indietro. (…)
Tra il 25 luglio e l’8 settembre ero nell’ospedale militare di Gemona; uscito me ne stavo a casa, in via Asquini. Qui ho cominciato ad avere contatti con Fadini [Domenico, esponente del CLN per il Pci] e altri per aderire alla Resistenza. (...)
Conoscevo un paio di Flaipano che erano già con Tito e per qualche tempo sono andato con loro, dalle parti di Caporetto. C’era un commissario che non vedeva di buon occhio gli italiani e allora, in tre, abbiamo deciso di ritornare a casa. Siamo andati dal commissario e abbiamo ripetuto di essere disposti solo a combattere contro i tedeschi e non contro gli italiani, fossero pure fascisti. Ci ha detto che avremmo potuto tornare a casa se avessimo consegnato le armi; abbiamo rifiutato e alla fine siamo riusciti a farci lasciare una pistola ciascuno. Per sei giorni abbiamo camminato sulle montagne verso Tarcento, muovendosi di notte e standosene nascosti di giorno, finché sono arrivato a Montenars, dove abitava mia nonna. Quando siamo arrivati, (era l’aprile del ’44) c’era un posto di blocco croato, ma siamo riusciti a schivarlo. I miei due compagni hanno continuato la strada verso la Carnia (uno era di Ovaro), sono riusciti ad arrivarci ma, una settimana dopo, sono stati presi in un rastrellamento e spediti in Germania.
Mi è stato consigliato di andare con la Todt, nell’Impresa Brigo di Cividale, dove già lavorava mia sorella. Facevo il capo, seguivo l'attività di tracciare le gallerie.
Di giorno lavoravamo a fare gallerie, la notte facevamo azioni contro i cosacchi o andavamo a sabotare i compressori con lo stesso esplosivo usato nei lavori. Eravamo aggregati agli osovani di Gaetano Falomo “Achille”, c’erano anche Tin Piscli “Max”, Berto Carminati e altri.
Lavoravo con la Todt; al mattino andavo a prendere i materiali e, di notte, facevo attività partigiana. (...)
La resa dei cosacchi è stata un’iniziativa partigiana. Bisognava andare a fare arrendere i cosacchi asserragliati nella scuola d’Arte; c’è stata qualche esitazione su chi ci dovesse andare. C’era una confusione notevole, nessuno sapeva niente degli altri.
Sono stato io a farli arrendere! Mi hanno mandato a trattare perché conoscevo un po’ di russo e di slavo. Sono entrato superando i cancelli di ferro; alle sentinelle ho detto che volevo parlare col comandante. Ho detto che, in caso di mancata resa, sarebbero stati fatti fuori tutti. C’erano due soldati che sbraitavano e, per farli calmare, ho mollato al ventre di uno un colpo col calcio del fucile. C’era fra loro un cosacco che avevo conosciuto a Ospedaletto al quale ho rispiegato i termini della situazione. Ha ribadito di non poter decidere, perché il comandante era andato a Tolmezzo e io gli ho nuovamente chiesto una decisione immediata, facendo notare che ormai da tutte le parti c’erano dei fucili puntati sulla Scuola d’Arte. Mi ha chiesto di avere un documento nel quale si fosse garantita l’incolumità in caso di resa. Non si riusciva a decidere e, nel frattempo, due soldati mi hanno preso e rinchiuso in un gabinetto, dove mi hanno lasciato per circa un’ora. Quando mi hanno fatto uscire, ho trovato De Carli [Giovanni, commissario prefettizio] e altri del CLN ai quali ho riferito la richiesta dei cosacchi. E’ stato scritto il testo di un accordo, in francese, e mi è stato detto di riconsegnarlo. Sono rientrato a portare la carta: li vedevo leggere e commentare sottovoce. Hanno prima fatto uscire le donne e i bambini, che si sono seduti sulle scale esterne, poi hanno buttato fuori le armi (ce n’era moltissime, molto superiori alle nostre) e si sono arresi. Se solo avessero immaginato che in fondo noi eravamo quattro gatti…
Dopo si sono attribuiti in tanti il merito di avere ottenuto la resa, ma gran parte è stato merito mio!